#LiberArtiCLAN | Parliamo di Censura
Il tormento, il fervore e l’intensità creativa che animarono Michelangelo Buonarroti da quando, a partire dall’estate del 1536, salì sul ponteggio per cominciare a dipingere il Giudizio Universale nella Cappella Sistina è cosa nota. Da quel momento, l’artista lavorò solo (o forse in piccola parte aiutato da collaboratori) per ben cinque anni di fila, coprendo oltre centottanta metri quadrati di superficie con più di quattrocento figure, concorrendo così alla realizzazione di un capolavoro assoluto che racchiude in sé interi capitoli di storia. Il grande affresco, commissionato da papa Clemente VII, fu vittima della censura clericale di stampo moralista.
Di fronte a un Dio giudice nudo e atletico, ad un Cristo privo di barba, schiere di santi senza aureola e angeli senza ali, il pubblico di clericali inorridisce! Infatti, all’ammirazione dei tanti che intuirono la genialità dell’artista fiorentino, già allora si unirono le voci di un pubblico – più incline ai giudizi moraleggianti che spirituali – volto a giudicare quei corpi nudi più adatti a decorare l’interno di un postribolo, che il trono di Dio in terra. La libera interpretazione iconografica che non lasciava spazio a false morali – in un mondo michelangiolesco in cui tutti sono colpevoli e tutti possono salvarsi – non passò certo inosservata, consacrando l’opera come spartiacque di due momenti storici precisi.
Questa era infatti l’epoca della Riforma luterana, l’epoca che precedeva il Concilio di Trento e la Controriforma, grazie al quale la chiesa riaffermava dogmaticamente la propria superiorità respingendo con forza ogni opposizione. Proprio per questo l’ostilità nei confronti del Giudizio Universale non si limitò esclusivamente ad attacchi verbali o epistolari. In tanti chiesero la rimozione dell’affresco e più di qualcuno arrivò ad invocare il rogo per l’eretico Michelangelo!
Tra i tanti infervorati, spicca il cerimoniere pontificio Biagio Martinelli che, a dire del Vasari, tentò di sfruttare la sua vicinanza con Papa Paolo III per gettare cattiva luce sull’opera e sull’artista. Le sue parole sono rimaste famose: disse che l’affresco era degno delle osterie, non certo della Cappella del papa; giudizio al quale Michelangelo rispose immortalandolo come Minosse, con le orecchie d’asino e un serpe che gli addenta i genitali.
La sensualità dei nudi corrompe la morale cristiana
Curioso e paradossale il rapporto tra potere ecclesiastico e arte! Se qualche decennio prima papa Giulio II chiama i più grandi artisti del momento, fidandosi della loro capacità di spiritualizzare i corpi nudi, più tardi furono proprio i capolavori di questi maestri ad essere maggiormente colpiti dalla censura. Ed ecco allora che nonostante il prestigio di cui godeva Michelangelo, non si poté impedire l’osservanza di un decreto, votato appositamente dal Concilio tridentino. Il 21 gennaio 1564, meno di un mese prima della morte dell’artista, la Congregazione dispose la copertura delle nudità con braghe e panni; si attese però il trapasso del Buonarroti per affidare all’amico Daniele da Volterra l’ingrato compito di apporle sull’affresco. In particolare, per le figure di San Biagio e Santa Caterina d’Alessandria, dipinte completamente nude e in una posizione che li faceva sembrare in atto di copula, l’intervento fu tanto drastico da prevedere la perdita di una porzione dell’affresco michelangiolesco a favore di una ridipintura!
Ma come avrebbe diversamente potuto dipingere un’anima Michelangelo? Come avrebbe potuto rappresentare l’incorporeo? I nudi immaginati dall’artista non avevano nulla di carnale, anime svincolate da qualsiasi orpello, si presentavano al cospetto del loro creatore libere, dopo aver lasciato a terra ciò che le rendeva terrene. Non celavano nulla di osceno dunque ma diventano il simbolo di un cambiamento storico che investe il concetto di libertà.
Infatti, dal Concilio di Trento in poi, l’arte diventa uno strumento di guerra e scuola di potere dottrinale grazie allo spauracchio del Sant’Uffizio. L’artista non ha più libertà d’espressione: in cambio di lavoro, la Chiesa comanda loro di parlare con la voce della curia pena l’esclusione dalla comunità e l’estromissione dalle commesse pubbliche. Via libera dunque all’apporsi di braghe ai nudi più belli della storia dell’arte a ricordarci che la malizia è negli occhi di chi guarda.
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