FotoCose | la FotoCosa del giorno
Il 9 Marzo del 1989 muore il fotografo Robert Mapplethorpe a causa di complicazioni conseguenti all’AIDS.
Nato 43 anni prima nel Queens da una famiglia ferventemente cattolica di origini irlandesi, Robert si distaccherà definitivamente da quel mondo negli anni sessanta, quando abbandonerà gli studi, che aveva intrapreso seguendo le orme del padre.
Sono gli anni della guerra in Vietnam, dei movimenti di liberazione delle donne e degli omosessuali, delle rivolte studentesche, seme del mondo nuovo che verrà. E’ in questo periodo che Mapplethorpe conosce una ragazza che sogna di diventare poetessa: Patti Smith. Si innamorano.
Il loro incontro da vita ad un legame che non verrà mai più sciolto. Vivono insieme, prima in un appartamento in Hall Street, poi in una stanza del Chelesea Hotel. Condividono paure, ambizioni, dolori, l’arte.
Poi si lasceranno, avranno altre relazioni, ma convivranno ancora in quella stanza del Chelsea Hotel, restando sempre intimamente legati. Continueranno a condividere tutto, persino l’omosessualità di Robert.
Sarebbe stato Robert a scattare la fotografia per la copertina di Horses, non avrebbe potuto essere altrimenti: la mia spada sonora protetta dall’immagine di Robert. Non avevo idee, sapevo soltanto che avrebbe dovuto essere autentica. L’unica cosa che promisi a Robert fu che avrei indossato una camicia in ordine, senza macchie.
Andai all’Esercito della Salvezza sulla Bowery e comprai una pila di camicie bianche. Alcune erano troppo grandi; quella che più mi piacque aveva delle iniziali sotto il taschino. Mi ricordò una fotografia scattata da Brassaï nella quale Jean Genet indossa una camicia bianca monogrammata con le maniche avvoltolate. Sulla mia c’erano ricamato RV – immaginai che la camicia fosse appartenuta a Roger Vadim, che aveva curato la regia di Barbarella. Tagliai via i polsini per indossarla sotto la giacca nera, che adornai con la spilla a forma di cavallo che mi aveva regalato Allen Lanier.
Robert voleva scattare la fotografia da Sam Wagstaff, perché nell’attico sulla Quinta Avenue c’era una bella luce naturale. La finestra ad angolo proiettava un’ombra che creava un triangolo di luce, e Robert voleva servirsene per la fotografia.
Rotolai giù dal letto e mi accorsi che era tardi. Mi lanciai nel mio rituale mattutino: svoltai l’angolo per raggiungere il panificio marocchino, arraffai un panino ben cotto, un fascio di menta fresca e qualche acciuga. Tornai a casa e misi a bollire dell’acqua, riempiendo la pentola di menta. Versai dell’olio d’oliva nel panino aperto, scolai le alici e le adagiai all’interno cospargendole di peperoncino di cayenna. Infine mi versai una tazza di tè, e siccome ero sicura che avrei sporcato la camicia sul davanti, mi dissi che averla già addosso non era una buona idea.
Robert venne a prendermi. Era agitato perché era molto nuvoloso. Finii di prepararmi: pantaloni neri col risvolto, calze bianche di filo di Scozia, Capezio nere. L’ultimo tocco fu il mio cravattino preferito; Robert mi tolse le briciole dalla giacca.
Scendemmo in strada. Robert aveva fame ma rifiutò il panino alle alici, perciò finimmo per mangiare pappa d’avena e uova al Pink Tea Cup. Chissà come, il giorno si spense. Si rannuvolò e si fece scuro e Robert continuò a scrutare il cielo in attesa del sole. Finalmente nel tardo pomeriggio iniziò a rischiararsi. Attraversammo Washington Square proprio mentre il cielo minacciava di rabbuiarsi di nuovo. Robert temette che potessimo perdere la luce, perciò corremmo per tutto il tragitto fino alla Quinta Avenue.
La luce stava scemando. Robert non aveva un assistente. Non avevamo parlato di ciò che avremmo fatto, o di cosa volessimo ottenere. Lui avrebbe fotografato. Io sarei stata fotografata.
Io avevo in mente il mio aspetto. Lui aveva in mente la luce. Tutto qui.
L’appartamento di Sam era spartano, bianco e quasi sgombro, con una grossa pianta di avocado accanto alla finestra che affacciava sulla Quinta Avenue. Un enorme prisma rifrangeva la luce spaccandola in arcobaleni che ricadevano sulla parete di fronte a un termosifone bianco. Robert mi posizionò nel triangolo con un leggero tremolio alle mani. Scattò qualche fotografia. Abbandonò l’esposimetro. Una nuvola passò e il triangolo svanì. Mi disse: «Sai una cosa, mi piace molto il biancore della camicia. Ti toglieresti la giacca?».
Mi gettai la giacca in spalla, alla Frank Sinatra. Avevo un mucchio di riferimenti visivi. Robert possedeva luce e ombra.
«Eccola» disse.Scattò qualche altra fotografia.
«Ce l’ho»
«Come fai a saperlo?»
«Lo so e basta»
Quel giorno scattò dodici fotografie in tutto.
Dopo qualche giorno mi mostrò i provini. «Questa è la magia» disse.
Ancora oggi, quando la guardo, non vedo me stessa. Vedo noi.
da Just kids di Patti Smith
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