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17 marzo 1992 | Il referendum sull’apartheid
Il Sudafrica è un paese stupendo, fatto dai mille colori della splendida natura e delle tante etnie e culture. Un paese che, proprio per sottolineare questo aspetto, ha scelto l’epiteto (e la bandiera) di Rainbow Nation, il paese arcobaleno, ma che deve fare i conti con una triste eredità: l’apartheid.
Ne abbiamo sentito parlare tutti, sappiamo di cosa si tratta, abbiamo visto film, letto libri, sappiamo bene i nomi di Nelson Mandela e Desmond Tutu, abbiamo visto centinaia di foto.
Forse questa foto del 1976 è una tra le prime che fece il giro del mondo, dando una svolta alla sensibilizzazione sulla situazione in Sudafrica. Durante la “protesta di Soweto“, nata in seguito alla nuova legge che imponeva l’educazione solo in Afrikaans (la lingua degli afrikaner, bianchi di origine prevalentemente olandese e tedesca), i poliziotti intervengono con le armi: il bilancio ufficiale è di 176 vittime, fra cui Hector Pieterson, il bambino di 13 anni ritratto tra le braccia dei genitori.
Chi come me è stato in Sudafrica non ha potuto non notare gli inevitabili strascichi che una situazione del genere continua (e purtroppo continuerà) a portare avanti.
Una storia fatta di violenza, su tutti i fronti. Basti pensare ad una delle pratiche terribili come quella del “necklacing“, ritratta da Greg Marinovich (membro del Bang Bang Club) e che gli fece aggiudicare il Pulitzer nel 1993. Era trascorso un anno dal referendum per la fine dell’apartheid in Sudafrica, passato con un misero 68,7% di sì: quasi un terzo della popolazione non era d’accordo.
Aldilà degli aspetti più ovvi della questione, questo è in verità un argomento dalle mille sfaccettature, spesso dure e talvolta controverse. Basti pensare alle parole di Winnie Mandela, allora moglie del prigioniero Nelson Mandela, che dichiarò: “Con le nostre scatole di fiammiferi e le nostre collane, libereremo questo paese“.
Il Necklacing
Nel giugno 1986 fu mandato in onda dalla televisione il video di una donna sudafricana bruciata a morte. Si chiamava Maki Skosana e il mondo la guardava con orrore mentre attivisti anti-apartheid la avvolgevano in una gomma di un’auto, la inzuppavano di benzina e la davano fuoco. Le sue urla di agonia sono state per molti la prima esperienza con il “necklacing” (da necklace, collana, per indicare il copertone d’auto messo al collo), una pratica usata dalla comunità nera per punire i suoi membri che erano informatori della polizia o in combutta con il governo pro-apartheid.
Questa pratica viene ritratta nel 1986 anche da una foto di David Turnley. Fortunatamente questa volta il “traditore” venne salvato all’ultimo momento prima che gli dessero fuoco durante un funerale.
Turnley si aggiudica il World Press Photo con il suo progetto, fondamentale per la documentazione della vita sudafricana durante l’apartheid. Le sue foto vennero pubblicate su numerose riviste come Life e National Geographic e l’eco internazionale fece sì che nel 1987 la residenza e i permessi di lavoro di Turnley non furono rinnovati e lui dovette lasciare il Sudafrica. Nel 1990, dopo la liberazione di Nelson Mandela dalla prigione, Turnley riacquistò l’accesso al paese e poté proseguire il suo lavoro in Sudafrica.
Afrikanerblood
La strada per l’eguaglianza è ancora lunga, in tutto il mondo ed in particolare in Sudafrica.
Lo testimonia il progetto multimediale (foto, video e testo) del 2012, premiato ancora una volta dal World Press Photo dal contenuto incredibile, poi distribuito su numerose piattaforme giornalistiche in tutto il mondo: Afrikanerblood.
I suoi creatori, Elles van Gelder e Ilvy Njiokiktjien, ci portano all’interno dei Kommandokorps in Sudafrica, un gruppo di estrema destra che sta insegnando ai giovani sudafricani bianchi a evitare la visione di Nelson Mandela di una nazione arcobaleno multiculturale. Guidato dall’autoproclamato “Colonnello”, nonché leader del vecchio apartheid, Franz Jooste, organizza campi estivi per gli adolescenti bianchi durante le vacanze scolastiche.
In nove giorni insegnano loro le basi per difendersi dal crimine in Sudafrica e che i neri sudafricani sono i loro nemici, inculcandogli il concetto che sono innanzitutto afrikaner e che dovrebbero negare la loro identità sudafricana.
Ed è grazie a queste iniziative che il ciclo continua, tornando indietro di qualche decennio, a prima del 1992, all’apartheid.
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