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13 maggio 1978 | La fine dei manicomi in Italia
I matti. Così li si sente chiamare ancora. Mia mamma lavorava al “CIM”, Centro Igiene Mentale, e posso dire di saperne qualcosa sui “matti”, da quando ero bambino ne ho conosciuti davvero tanti. Me li ricordo soprattutto con tenerezza, talvolta con la curiosità tipica dei bambini, e ricordo ben poche, rare volte, in cui mi hanno fatto intimorire un poco.
Il 13 maggio 1978 entrò in vigore la Legge 180, nota anche come legge Basaglia, che chiudeva i “manicomi” in Italia sostituendoli con un servizio di cura e riabilitazione delle malattie mentali.
Circa 40 anni dopo l’entrata in vigore della Legge 180 in Italia, esce il lavoro fotografico “Manicomio” di Raymond Depardon, che da un lato preserva il ricordo nella nostra memoria collettiva, dall’altro rende omaggio a Franco Basaglia, morto solo due anni dopo l’approvazione della legge che porta il suo nome.
Basaglia respingeva le convenzioni oppressive dell'”istituzione totale” e aveva invece messo l’emancipazione dei suoi pazienti al centro della sua ideologia. Togliendo l’uso delle camicie di forza, abbattendo i muri e introducendo la dignità nella cura dei pazienti, stava tentando di aprire la strada a un approccio più umano per il trattamento della salute mentale.
Raymond Depardon arrivò per la prima volta al manicomio di Gorizia nel 1977, un ospedale psichiatrico a Trieste, quando Franco Basaglia, direttore dell’istituzione, aveva iniziato un programma sperimentale che portò poi alla drastica riforma del sistema di salute mentale.
All’inizio degli anni ’70, oltre 100.000 pazienti erano rinchiusi, in condizioni spesso disumane, in tutta Italia. Incoraggiato da Basaglia, Depardon iniziò a visitare i manicomi in questo periodo di trasformazione, a Venezia, Napoli, Arezzo e Torino.
Non mi resta che lasciarvi alle immagini e alle parole di Depardon, che ci guidano in una storia dura, di cui si parla sottovoce, la storia di uomini che spesso, in questi istituti, hanno potuto solo peggiorare la loro condizione.
Il racconto di Raymond Depardon
“Tornavo spesso nel vecchio ospedale di Trieste, il posto chiamato “manicomio”. Un giorno ho seguito questo gruppo uscendo dalla mensa. Che cosa mi ha colpito dei pazienti: il loro aspetto, i vestiti che indossavano, il modo in cui camminavano? Sono stato attratto da loro. Mi sono trovato in un vecchio reparto; la porta del reparto si chiuse alle mie spalle, non c’era un’infermiera in vista. Con il rumore e la decrepitudine del luogo, confesso che per un momento ho avuto paura. Ho iniziato a fotografare, molto piano.”
“Ci sono tornato ogni giorno. Ho trascorso tutto il mio tempo in questo reparto. Nessuno mi ha mai chiesto niente. Un pomeriggio ho sentito qualcuno gridare e ho spalancato una porta. Mi sono trovato faccia a faccia con quest’uomo in una gabbia. Avevo dei dubbi sul fotografarlo. Ho chiesto a un’infermiera perché gli fosse stato somministrato questo particolare trattamento; mi disse che l’uomo era violento e un pericolo, soprattutto per se stesso.”
“Franco Basaglia mi ha invitato in un raffinato ristorante a Trieste. Pensavo che mi avrebbe rimproverato per aver fotografato questo reparto di pazienti “cronici”. Non ne fece menzione; parlava di altre cose. Alla fine della cena, ho confessato. Mi ha rassicurato immediatamente: “Qui fotograferai pazienti che non vedrai da nessun’altra parte, ma è esattamente lo stesso in Francia e in America. L’ospedale psichiatrico li ha resi così; ora è troppo tardi, non c’è nient’altro che posso fare per loro. Scatta le tue fotografie, altrimenti la gente non ci crederà”.
“Agostino Pirella, il direttore dell’ospedale psichiatrico di Collegno, fu sorpreso quando vide la fotografia dell'”uomo senza testa”. Non sapeva di avere un paziente nel suo ospedale con questo sintomo. Aveva studiato questo tipo di caso anni fa, all’università.”
“Era estate; faceva molto caldo. I giovani psichiatri avevano deciso di lasciare i loro pazienti nudi nel cortile, dando loro la possibilità di togliersi i vestiti sfilacciati.”
“Nell’estate del 1981, sono tornato frequentemente sull’isola di San Clemente. L’ospedale avrebbe dovuto chiudere e gli ultimi pazienti vivevano in comunità; il Palazzo Bolda, a Venezia, era utilizzato come centro diurno. Domenico Casagrande era felice, c’era una scuola per volontari. Vittorio era annegato nella laguna, ma Gazaro era ancora lì, tutti sorrisi.”
“Quando ho chiesto a Domenico Casagrande e Agostino Pirella cosa sarebbe successo dopo, hanno risposto apertamente: “Raymond, non ci sono più foto da scattare, la prigione è chimica adesso”.”
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