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13 Gennaio 2012 | Il Naufragio della Costa Concordia
Il 13 Gennaio del 2012 la nave da crociera Costa Concordia urtava uno scoglio a seguito di una manovra sconsiderata ed andava ad adagiarsi su un fianco, davanti all’imboccatura del porto dell’Isola del Giglio. Nell’incidente persero la vita 32 persone. Una tragedia che sarebbe potuta diventare ancora più grande, se il naufragio fosse avvenuto in mare aperto.
All’alba del giorno seguente il sole svelava il relitto che giaceva a poche decine di metri dal percorso usuale dei traghetti provenienti da Porto Santo Stefano.
Nelle settimane che seguirono, la sonnacchiosa isola toscana fu presa d’assalto da giornalisti, fotografi e troupe televisive.
Fu un risveglio brusco per i gigliesi, gli alberghi riaprirono all’improvviso per ospitare soccorritori, curiosi e tutto il circo mediatico, e se non fosse stato per i vestiti invernali, chi ben conosceva i ritmi dell’isola avrebbe pensato di trovarsi in alta stagione.
Ovviamente, per un giovane fotografo che vive in un luogo in cui non succede mai nulla, quella situazione era un’occasione imperdibile, perciò, con degli amici videomaker, mettemmo su una troupe improvvisata e partimmo, decisi a girare un documentario che andò a finire nel limbo dei progetti incompiuti.
Benché fossimo dei pivelli assoluti, capimmo subito che dovevamo raccontare qualcosa di diverso da tutti gli altri, se volevamo produrre materiale anche solo minimamente interessante. Così decidemmo di concentrarci sul modo in cui la notizia veniva coperta dai media: volevamo realizzare un grande backstage.
Il nostro punto di riferimento diventò Enzo, un navigato fotografo di news. Si sedette vicino a noi sul traghetto, incuriosito dal fatto che stavamo usando delle reflex per fare le riprese (al tempo era una cosa piuttosto inusuale).
Enzo si vantava di essere stato il primo ad inviare le foto del naufragio in agenzia. Non c’era proprio motivo di dubitarne, perché dava l’impressione di essere un tipo molto ben inserito. Girare per l’isola con lui era praticamente impossibile, ogni tre passi salutava qualcuno e si fermava a scambiare due battute. Intesseva continuamente rapporti con tutti. Dal barista al maresciallo, tutti lo conoscevano.
Noi, da principianti assoluti, non sapevamo da che parte cominciare e lui ci aiutò presentandoci fotografi e giornalisti da intervistare.
Erano i giorni in cui ancora si contavano i dispersi, ma era già tardi per continuare a credere che gli assenti fossero sopravvissuti. Nonostante questo, i loro parenti avevano raggiunto il Giglio e restavano aggrappati ad una speranza impossibile, mentre i bollettini delle autorità scandivano le giornate con brutte notizie.
Gennaio a volte fa le prove generali per la primavera e qui in Toscana non è inusuale che regali giornate blu, tanto miti da costringerti a togliere giacca e maglione. Quell’inizio 2012 fu così, ci fece vivere l’incongruenza di una tragedia invernale illuminata da un sole limpido e tiepido. Non è in questo modo che di solito ti immagini una catastrofe.
Chi si occupava di news inseguiva comunicati ed indiscrezioni, alternando oziosi momenti di attesa alla totale frenesia. I pochi che invece avevano la possibilità di trattare la storia svincolandosi dalla strettissima attualità avevano ritmi meno schizofrenici (almeno in apparenza). Col passare del tempo si era comunque instaurata una routine che tutti rispettavano, una nicchia di normalità a margine di un evento straordinario. Un’altra dissonanza.
Le giornate trascorrevano sempre uguali, al mattino i giornalisti che non avevano un alloggio sull’isola sbarcavano col traghetto e affollavano il bar di fronte al molo per fare colazione (probabilmente la seconda della mattinata). Lì, tra battute e commenti sui fatti del giorno, qualcuno impiegava più tempo del dovuto ad estrarre i soldi dal portafogli, sperando che altri fossero più veloci di lui.
Il tempo poi scivolava via tra comunicati stampa e ondeggiamenti da mal di terra (quella sensazione che hai quando, ormai sulla terra ferma, continui a compensare col corpo i movimenti della barca che rolla e beccheggia), fino a quando il plotone delle troupe dei telegiornali si allineava sul molo a favore di luce per i collegamenti dell’edizione di mezzogiorno.
Il pomeriggio seguiva uguale alla mattina finché l’isola si spopolava con la partenza dell’ultimo traghetto.
Su tutto però aleggiavano una specie di ombra e una sottilissima, strisciante, eccitazione che tutti percepivano chiaramente e costantemente, benché continuassero a fare cose normali.
I fotografi che intervistammo erano stregati dall’estetica della tragedia, ma non liquidate questo atteggiamento come mero cinismo, perché, se si deve raccontare un evento per immagini, non si può prescindere dalla componente visiva della scena. Quanto più riesco a creare un’estetica intrigante, o sorprendente, o disturbante, tanto più il mio racconto sarà capace di provocare una reazione (abbiamo già sfiorato il tema qui).
Quindi non c’è da stupirsi se chi per lavoro produceva immagini si aggirava per l’isola in perenne stato di eccitazione. Dovunque si puntasse l’obiettivo, sullo sfondo appariva un relitto di 300 metri.
Un gigantesco equivoco bianco e blu all’interno di una cartolina.
Un giornalista olandese ci fece notare che, se il naufragio fosse avvenuto in alto mare, non ci sarebbe stata la stessa risonanza mediatica. Eravamo di fronte ad un transatlantico appoggiato su un fianco a pochi metri dalla riva, scenario di una storia in cui, tutto, dalle cause all’esito, era un ribollire di umanità.
Così, quelle del naufragio della Concordia sono entrare a far parte della categoria delle immagini indelebili che costituiscono la memoria collettiva di una comunità. Quelle immagini per le quali, anche a distanza di anni, riusciamo a ricordare limpidamente cosa stavamo facendo nell’esatto momento in cui le abbiamo viste per la prima volta.
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