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Spesso ci sono personaggi che, per diversi motivi, vengono universalmente riconosciuti per il loro talento solo a posteriori, e questo ovviamente accade anche nel campo della fotografia.
Ne è un esempio Alfredo Camisa, nato a Bologna esattamente 93 anni fa, il 1 settembre del 1927, fotografo dall’attività brevissima e schiva.
Una scelta di vita
Nel 2002 la FIAF (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche) lo ha insignito del titolo di Maestro Fotografo Italiano, dedicandogli per l’occasione anche una monografia.
La sua è una storia che abbraccia “attivamente” la fotografia solo per pochi anni, tra il 1953 e il 1961, e che gli fece ricadere addosso l’etichetta di “fotografo neorealista”, cosa che lui criticò sempre duramente.
La sua è anche una storia ambientata in una piccola città che forse gli sta troppo stretta, ma che, come vedremo, non riuscì ad abbandonare, o meglio scelse di non farlo. Questa “insofferenza” si legge anche tra le numerose lettere scambiate da Camisa con Mario Giacomelli “Tu giri tutto il mondo, io mi devo accontentare della mia piccola città. E poi, perché fotografare? Io lo faccio per me, per la passione che ho, altrimenti mi sarei avvilito.”
Questo si lega alla sua scelta più dura, quella di diventare fotografo professionista o di continuare a farlo solo per piacere.
Nessuno può spiegare meglio questo conflitto se non lui stesso, attraverso le sue parole, tratte proprio dal libro edito nel 2002: “Alfredo Camisa, Maestro Fotografo Italiano”.
“Vi sono fotografi che scattano le loro immagini con le dita e con l’occhio, altri che lavorano con il cervello e con il cuore. La mia fugace presenza nella Fotografia Italiana credo mostri abbastanza chiaramente quale sia stata, sin dall’inizio, la mia “scelta di campo”. Giunto poi fatalmente – come altri miei amici o colleghi – al bivio della scelta fra dilettantismo e professionismo, mi resi conto che lavorare nell’unico modo al quale ero abituato – e nel quale mi consideravo realizzato, per mia cultura e per forma mentale – non mi avrebbe prosaicamente permesso di risolvere il problema del pane quotidiano, a breve e medio termine almeno. La via del lavoro alle dipendenze di qualche editore, ammesso che ve ne fosse qualcuno disponibile, suonava d’altra parte troppo “prostituzione” ad un giovane come me, ancora imbevuto dagli ideali post-resistenziali, convinto assertore matteiano del riscatto del Sud, lettore – a Milano – de “La Stampa” di Torino, affascinato dal “FRANGAR NON FLECTAR” del suo sottotitolo. E così mi imposi di lasciare, di uscire dalla “full immersion” fotografica prima di esserne completamente sommerso, e prima che la scelta potesse divenire irreversibile e pregiudicare il mio “privato”. L’incalzare degli impegni di lavoro e le conseguenti delusioni ideologiche sul fallimento di qualsiasi iniziativa industriale e sulle utopie del riscatto meridionale fecero il resto. La decisione mi costò. Mi costò moltissimo per la dedizione e l’impegno che avevo dedicato alla fotografia. Tempo profuso a piene mani, sottratto ad altri doveri certamente più importanti, di cui solo ora a 50 anni di distanza, si intravede qualche segno di riconoscimento ed apprezzamento. La decisione fu drastica ed irrevocabile. Allora fu dolorosa, ma giusta. Ne uscii deluso, ferito, ma non pentito. Oggi… Oggi forse sarebbe tutto diverso.”
Per chi voglia approfondire questa storia vi lascio alle parole di Marta Camisa, nipote del fotografo e direttrice dell’Archivio Fotografico Alfredo Camisa, che grazie alle lettere scambiate dal nonno con Mario Giacomelli, ci racconta le scelte e visione del nonno.