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Oggi Gabriele Basilico avrebbe compiuto 76 anni. Quest’anno l’anniversario della nascita del fotografo italiano cade a poco più di una settimana dall’esplosione di un deposito di nitrato d’ammonio che ha devastato Beirut, città già ferita da attentati e fiaccata da una pesante crisi economica.
Tra Basilico e la capitale libanese c’è un legame che risale al 1991, quando la scrittrice Dominique Eddé diede vita ad un progetto collettivo chiamato The Beirut Photography Mission, che affidava a sei fotografi il compito di documentare le tracce lasciate da 15 anni di guerra civile su Beirut.
Il gruppo, oltre a Basilico, comprendeva René Burri, Raymond Depardon, Fouad Elkoury, Robert Frank e Joseph Koudelka.
Il contesto in cui operarono i sei fotografi era figlio della guerra civile scoppiata nel 1975. Durante la quale Beirut fu divisa tra la parte occidentale (a maggioranza musulmana) e quella orientale (a maggioranza cristiana). L’area del centro, in precedenza sede di gran parte delle attività commerciali e culturali della città, divenne una terra di nessuno.
I più fortunati fuggirono all’estero e molti di quelli che rimasero furono uccisi durante la guerra e l’invasione israeliana del 1982.
Al termine del conflitto, nel 1990, iniziò la ricostruzione di Beirut.
Il fulcro del lavoro di Basilico sono le immagini delle ferite inflitte da 15 anni di guerra civile al cuore della città. Basilico si muove nel centro della capitale devastata e ancora minata, in un tempo di transizione, sulla linea di demarcazione che separa le rovine del passato dalla preparazione di un futuro: tra morte e resurrezione.
Non si trattava di fare un reportage sulle rovine, ma di comporre uno “stato delle cose” affidato a una libera e personale interpretazione.
Fotografo le città da moltissimi anni, conosco bene la ritualità dei gesti legati all’esplorazione del tessuto urbano. Ma una città ferita, oltraggiata, ha bisogno di una sensibilità tutta particolare, pretende un’attenzione speciale, di partecipazione ma anche di rispetto. Prima ci sono la commozione e il dolore per la tragedia, poi la paura e l’esitazione che precedono l’inizio della pratica rituale della fotografia, che esige considerazione e responsabilità.
Poi qualcosa succede, forse la città ascolta, intuisce le esitazioni, lancia un messaggio e libera in modo pacato dalle angosce, aiuta a sciogliere lo sguardo pietrificato. Subentra un silenzio metafisico, una pausa dopo la quale si può agire, osservare, prendere le misure.Successivamente sono tornato a Beirut altre tre volte per seguire la ricostruzione di downtown che oggi appare magicamente risorta nel nuovo skyline urbano.
Gabriele Basilico
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