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Evgenij Anan’evič Chaldej è nato il 23 Marzo 1917, 103 anni fa, ed è stato un fotoreporter dell’agenzia di stampa TASS, per la quale ha seguito l’Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale fino alla vittoria sovietica.
Fotografò la Conferenza di Pace di Parigi, i processi di Norimberga e Potsdam. Alcune della sue foto furono usate come prove contro i crimini di guerra nazisti (se vi interessa il tema leggete la storia di Francisco Boix, il fotografo di Mauthasen). Dal 1959 al 1972 lavorò per la Pravda, continuando a fotografare in tutto il mondo avvenimenti e personalità.
Secondo la leggenda, ancora ragazzo, costruì da solo la sua prima macchina fotografica partendo da una lanterna magica appartenuta a sua nonna (stando ad altre fonti invece pare che abbia rubato le lenti che gli occorrevano dagli occhiali della povera nonna).
Chaldej è innegabilmente una delle memorie storiche del ventesimo secolo, ma la sua carriera non è senza macchie.
Il 30 Aprile 1945 l’esercito sovietico prende Berlino e, mentre Adolf Hitler, rintanato nel Führerbunker, prima ingerisce una capsula di cianuro e poi si spara un colpo in testa, il capitano Stepan Andejevich Neustroyev issa la bandierà rossa nella devastata capitale tedesca.
E’ la fine dell’incubo nazista, ma Chaldej non è lì, ha perso il suo appuntamento con la storia.
Un bello scoop mancato per il fotografo più instancabile dell’Armata Rossa, l’uomo che aveva seguito la Grande Guerra Patriottica passo dopo passo per 30 mila chilometri in 1414 giorni, «da Murmansk a Norimberga», come intitolò poi il suo album di memorie. Ma Chaldej (detto Stakanov dai colleghi, e non solo perché aveva immortalato l’eroe del lavoro, suo concittadino) non era il tipo da scoraggiarsi per così poco. Figlio del realismo socialista, notoriamente la forma d’arte più surreale e inventata che sia mai esistita, era abituato a comporre le sue fotografie, con ritocchi e fotomontaggi, trasformandole in «visioni».
Visione più visione meno, in quel maggio di vittoria Evgenij pretende e progetta il suo alzabandiera strepitoso. Solo che nella Berlino appena occupata, per strano che possa sembrare, non riesce a trovare una sola bandiera rossa. Un problema? Niente affatto. Sale su un volo militare per Mosca, si precipita nella sede dell’agenzia Tass, per la quale lavora, e strappa alla sconcertata segretaria Grisha tre tovaglie rosse usate per le cerimonie. Poi corre dallo zio sarto e lo obbliga in piena notte a cucirvi sopra tre falci-e-martello di cartone.
Altro volo ed eccolo di nuovo a Berlino, a cercare la location giusta per il suo tableau vivant. Prova su un’aquila di granito, appena sbarcato all’aeroporto Tempelhof: poco identificabile. Ritenta alla porta di Brandeburgo, ma non c’è lo sfondo drammaticamente giusto. Finalmente avvista la cupola diroccata del Reichstag, da cui suppone, giustamente, che si goda un terribile panorama sulla città in fiamme, e vi si precipita. Del resto, dove deve sventolare una bandiera di vittoria, se non sul parlamento dal cui rogo cominciò l’hitlerismo?
Nell’atrio incontra tre soldati russi che scolano vodka. Li scrittura su due piedi. Li fa arrampicare sul tetto reso scivoloso dall’umidità e dal sangue dei cecchini uccisi. Scatta un intero rullino: una follìa, vista la scarsità di materiale fotografico di allora, ma sa bene quel che fa.
Finalmente capisce di avere nel carniere la preda giusta: uno dei soldati in equilibrio precario sl pinnacolo, le statue che ne replicano la silhouette, la bandiera ben dispiegata su un panorama di macerie. Il cielo troppo bianco sarà corretto più tardi con l’aggiunta di colonne di fumo. C’è solo un particolare che non va. Se ne accorge il redattore capo Palgunov: il soldato che sorregge il portabandiera ha un orologio su ciascun polso, dunque almeno uno l’ha rubato verosimilmente a un soldato morto. E si sa che la legge marziale sovietica prevede la pena di morte sul campo per gli spogliatori di cadaveri.
Non è proprio da monumento all’eroismo dell’Armata Rossa che il simbolo della liberazione sia passibile di essere passato per le armi su due piedi. Poco male, si può rimediare: Chaldej gli spennella di nero le braccia. Ed è fatta: l’icona del trionfo sovietico sul nazismo è nata. Sarà riprodotta migliaia di volte, su poster, dipinti, francobolli (il ladro d’orologi, a volte, scomparirà discretamente). Commuoverà milioni di reduci e di militanti. La sua «verità», in fondo, se la conquisterà così, nelle emozioni di chi la vede, riscattando la sua gestazione artificiale.
Michele Smargiassi su Fotocrazia, 2012
Per costruire la sua foto pare che Chaldej si fosse ispirato ad un altro celebre alzabandiera, quello ritratto dal collega americano Joe Rosenthal sul monte Suribachi durante la battaglia di Iwo Jima il 23 Febbraio del 1945.
La cosa curiosa è che anche Rosenthal, come Chaldej dopo di lui, era arrivato tardi al suo appuntamento con la storia, solo che ha avuto un pizzico di fortuna in più, oppure, dato che a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca, ha solo raccontato una storia molto credibile.
Quando il fotografo americano è giunto sulla sommità del monte Suribachi la bandiera era già stata issata e addirittura fotografata dal sergente Louis Lowery, ma a causa di un improvviso scontro a fuoco con gli ostinati giapponesi che, si sa, non si danno per vinti facilmente, Lowery aveva perduto fotocamera e rullino.
Secondo la versione di Rosenthal, al suo arrivo i marine stavano issando una seconda bandiera, perché la prima era troppo piccola per essere vista da lontano.
Il sergente Lowery, che nel frattempo era sceso dalla collina per procurarsi un’altra macchina fotografica, s’infuriò non poco, pensando che Rosenthal avesse messo in scena il secondo alzabandiera.
A quanto pare la confusione era dovuta al fatto che sul monte Suribachi Rosenthal aveva effettivamente costruito un altro scatto, mettendo in posa i marine attorno alla bandiera issata.
Un gran casino insomma, tant’è che i critici hanno gridato al falso per oltre 70 anni.
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