FotoCose | la FotoCosa del giorno
Nel maggio 1992 avevo solo 12 anni, ma nonostante sia passato tutto questo tempo mi ricordo molto bene la scena. Ero a casa dei miei genitori quando, in televisione, inziarono a trasmettere le immagini dell’autostrada A29, sventrata da un’esplosione nei pressi di Capaci.
MAFIA. Una parola che in quegli anni si sentiva molto più di oggi, una parola che ancora capita di sentir pronunciare in relazione all’Italia, una parola che è fatta di criminali, a più livelli, di ingiustizie purtroppo quotidiane.
Mi ricordo i momenti di stupore, di amarezza, di impotenza, vedendo le auto del giudice Giovanni Falcone e della sua scorta dilaniate dal tritolo: immagini terribili. Ma mi ricordo ancor di più quella tremenda sensazione, come se la giustizia stesse vacillando di fronte alla mafia.
E questa sensazione di sconforto prese non solo me, ma tante altre persone. Una sensazione così forte da far praticamente smettere di fotografare una delle più grandi fotografe italiane di sempre: Letizia Battaglia.
5 marzo 1935 | Nasce Letizia Battaglia
“A un certo punto erano così grandi le ferite dentro, per tutto quello di cui ero stata testimone, per i pianti ai quali avevo partecipato. […] Io dissi basta, non serve più, io non fotografo. E questo me lo sento come una colpa, un limite, ho sbagliato: se ho la macchina fotografica io devo fotografare.“
Pochi giorni prima della strage aveva anche chiuso il giornale palermitano “L’Ora” in cui nel 1969 aveva iniziato a lavorare, diventando di fatto la prima donna fotografa ad entrare ufficialmente in una redazione giornalistica italiana.
La sua fama è legata indissolubilmente alle sue foto legate al mondo della mafia, quelle che lei chiama il suo “archivio di sangue“, foto di omicidi efferati, fatte per informare il mondo su tutti sugli orrori che venivano commessi nella sua amata terra.
Ma dopo decenni di foto e impegno politico e sociale, la strage di Capaci le tolse le ultime forze, e ricorda Falcone dicendo: “Eravamo fieri di avere un giudice così coraggioso nella nostra terra […] avevamo delle persone che rappresentavano la nostra voglia di giustizia“.
A lei non piace essere chiamata “la fotografa della mafia” (“casomai contro la mafia!” dice), appellativo che le hanno affibbiato i giornalisti durante la sua lunga carriera, ma in verità non le piace nemmeno essere chiamata fotografa: “Io sono una persona, non una fotografa. Sono una persona che fotografa. La fotografia è una parte di me, ma non è la parte assoluta, anche se mi prende tantissimo tempo“.
Le sue foto, infatti, raccontano la sua Sicilia, e in particolare la sua Palermo, con le sue luci e ombre.
Negli anni è stata insignita di numerosi premi, in particolare è stata la prima donna europea a ricevere, nel 1985, il Premio Eugene Smith, a New York, riconoscimento internazionale istituito per ricordare il famoso fotografo di Life.
Fotografare scene di omicidi, piene di sangue (“per fortuna fotografo in bianco e nero” dice ironicamente Letizia) è un compito estremamente difficile, e lo era soprattutto a quei tempi, specialmente per una donna: “Su una scena di omicidio erano tutti uomini, non c’era una donna, anche i medici legali, i giudici erano tutti uomini in quegli anni. Io dovevo portare le foto al mio giornale ‘l’Ora’, e non mi facevano passare perché ero donna, allora siccome la Rai passava, i miei colleghi fotografi passavano, non mi credevano io mi mettevo a gridare. Questo creava panico nella polizia, arrivava il capo che talvolta mi conosceva e diceva ‘la signora passa’.”
Nelle sue schiette interviste si sofferma a parlare degli aneddoti dietro ad alcune sue foto, ad esempio quella dell’arresto di Leoluca Bagarella, accusato di aver ammazzato personalmente 60 persone, “lui era così furioso che mi sferrò un calcio, ma la foto l’avevo già scattata.“
“Ho usato sempre il grandangolo, quindi mi dovevo sempre avvicinare […] col teleobiettivo puoi rubare meglio le cose, ma io ho bisogno di essere lì, magari di essere sputata in faccia, ma io devo far vedere che sto facendo la foto, alla pari, perché se io ti fotografo in manette, non siamo alla pari. Tu con le manette non mi puoi spaccare magari la macchina fotografica, ma così almeno tu mi puoi riconoscere. Non è bello fotografare persone arrestate.”
Palermo è e rimane la sua città, e pare proprio non ce la faccia a starne lontana più di tanto.
Lì ha portato avanti fin da sempre le sue idee: vi ha fondato (insieme al collega Franco Zecchin) il laboratorio d’IF “Informazione fotografica”, frequentato da fotografi del calibro di Joseph Koudelka e Ferdinando Scianna, la rivista Mezzocielo, con uno staff tutto al femminile, e da qualche anno porta avanti il progetto del Centro Internazionale di Fotografia, che coinvolge numerosi fotografi.
Il New York Times l’ha messa nel 2017 tra le 11 donne che “hanno fatto la differenza” nel mondo: una fotografa, anzi una donna, sempre impegnata nel portare avanti le sue battaglie, per la sua terra e in generale per la giustizia, di cui purtroppo c’è spesso un disperato bisogno.
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